Un paio di mesi fa ho visto un film che avevo in arretrato da tempo: Fish Tank. Niente male, taglio realistico, dialoghi crudi e una camera a spalla che segue la giovane protagonista come un fratellino curioso e inopportuno che la spia nel delicato momento adolescenziale. Sullo sfondo una dura e pura black and white town inglese.
La casa non è un riparo, anzi, poco spazio e tanto casino a cominciare dall’avvenente madre, una bellezza sul viale del tramonto che perde il pelo ma non il vizio tra festini e amanti che lasciano in giro lattine di birra vuote e la tazza del cesso alzata. L’ultimo stallone preso al lazo, si rivelerà determinante per la crescita della ragazza…
Insomma, un buon film indipendente che si è portato a casa il premio della giuria al festival di Cannes 2009, oltre ad aver sbancato in altre decine di festival nazionali e internazionali più o meno noti. Quindi, decido di approfondire e scopro che la non più giovane, ma certamente matura regista, è una rossa dallo sguardo magnetico, originaria del Kent che già nel 2003 si era portata a casa nientemeno che la statuetta più famosa del mondo per il miglior cortometraggio. Eh, si…proprio il vecchio zio Oscar.
Andrea Arnold nasce come attrice di una serie televisiva inglese, passa attraverso la conduzione di un programma sul piccolo schermo ma, incapace di non ascoltare quella che sente come reale vocazione (da giovanissima scriveva già molti racconti dark o drammatici in generale) parte per Los Angeles dove studia regia. Di ritorno in patria, si perfeziona in scrittura cinematografica ed inizia a realizzare alcuni cortometraggi: Milk (1998), Dog (2001) e Wasp (2003). Del secondo, purtroppo, non vi è traccia sul web, mentre sono reperibili gli altri 2.
Il primo corto, Milk, rivela in 10 minuti la grande maturità della regista. Girato in pellicola, è una produzione molto attenta in cui le componenti tecniche, dalla fotografia passando per scenografia e attori stessi, sono di prim’ordine, tanto da sembrare un frammento di film estrapolato e presentato al pubblico come un’anteprima.
Lineare e ortodosso (molto British) rispetto a quello che sarà lo stile degli anni a venire, racconta la reazione di una giovane donna alla perdita del figlio appena nato. Una maternità negata cui si contrappone un dolore intenso e intimo, che fa rumore con i silenzi e da cui è impossibile distogliersi, perché a ricordarlo c’è proprio quel latte del titolo che il corpo  della donna produce senza che possa nutrire una vita.
Il giorno del funerale, mentre il padre provvede a seppellire il piccolo, lei si nega allo strazio abbandonando la sua realtà , vagando senza meta. Incontra un ragazzo giovanissimo, solo e arrabbiato come solo un teenager sa essere e lo segue in una tenera perdizione. Un temporaneo viaggio (forse) che restituirà a entrambi quella figura parentale assente nelle loro vite.
Da sottolineare alcune inquadrature simboliche, figlie di un notevole talento visivo della regista. Dall’uovo in apertura che cadendo nella padella sembra evocare un ovulo femminile (proprio la notte del concepimento) passando dal seno che piange una lacrima di latte, fino all’abbraccio finale, tanto tenero quanto disturbante.
A soli 7 anni da Milk, il mondo cinematografico si accorge di Miss Arnold, incoronandola regina dei corti alla notte degli Oscar. In realtà il suo Wasp, datato 2003, era in giro per festival da quasi 2 anni e faceva incetta di riconoscimenti praticamente ovunque.
Zoe è una ragazza madre con 4 figli appresso. Povera in canna, l’ombra dei servizi sociali che incombe, Zoe non vuole rassegnarsi all’idea di fare la mamma e solo la mamma, a chiudere per sempre i sogni di fama e ricchezza nel cassetto e rinunciare alle attenzioni degli uomini. Tra i palazzoni fatiscenti della suburbia britannica, i suoi bimbi scalzi e affamati fanno lo slalom tra la sporcizia, schivano le morbose attenzioni dei ragazzi di strada e con lei incontrano David, un suo ex a cui non sa dire di no.
Non può farselo sfuggire, non ora che sente risalire quel fuoco rimasto spento da troppo tempo. Allora Zoe rassicura il giovane, non sono suoi quei marmocchi, gli fa solo da baby sitter per un’amica. Fissa l’appuntamento per la sera stessa, ma quei bimbi non può che portarseli dietro. E allora via, giù al pub con una mini gonna che faceva prima a rimanere in mutande, parcheggia fuori dal locale i figli con l’ordine di non muoversi e da il via alla sua serata.
Ma la disperazione, nella miseria, a volte si nasconde dietro la banalità dei gesti, dietro la loro ingenuità . Soddisfare un bisogno vale per un adulto così come per un bambino, anzi, ancora di più. L’atteggiamento di Zoe verso i suoi piccoli rischierà di avere tragiche conseguenze…
Wasp è senza dubbio un cortometraggio duro, vero come lo stile con cui è girato. Vero come certe realtà che molti forse non conoscono o si dissociano o magari neanche possono immaginare perché distanti dalla loro percezione del mondo. Ma accadono, ogni giorno e spesso non così lontano. The World we’re living in cantavano i Violent Femmes, un mondo in cui la nostra protagonista Zoe fa di tutto per farci impallidire. Totalmente irresponsabile ed egoista con i figli, alle loro lecite richieste di cibo o di scarpe non risponde rassicurando, ma sviando l’attenzione, canta e danza evitandoli di volta in volta. I suoi ordini sono categorici e i suoi modi, non proprio educativi, pesano già sul loro futuro di adulti.
Ma la Arnold ha uno sguardo imparziale e quello che passa non è una condanna bensì una presa di coscienza per lo spettatore come per la protagonista alla fine del corto. Perché in certe realtà sociali la fuga è quasi impossibile, se non quella immaginaria, come l’ossessione di Zoe per David e Victoria Beckham e il loro mondo dorato, incastonata in quella figurina appiccicata sul muro della cucina. Mi piace pensare all’assonanza del titolo Wasp con Wags, termine forgiato dai tabloid inglesi per indicare le mogli dei calciatori e sportivi britannici.
Quel duro paradosso sociale per cui, più una realtà è disgraziata, più forte sarà l’impatto e l’influenza di certe illusioni totalmente opposte su di essa, prende vita in questa piccola grande opera. Una giungla urbana in cui gli insetti che vediamo sono quasi tutti finti, tranne quella vespa del titolo, con il suo ronzio fastidioso, come l’inquietudine di Zoe, tormento tra le mura di casa e conseguenza quasi fatale per il futuro dei suoi figli.
Bravi tutti, inclusi i bambini. Belle simbologie e regia “sporca” adeguata. I figli sono vittime predestinate, spugne che assorbono atti, suoni e tutto quello che il mondo e la famiglia gli riversa, costretti, spesso, a crescere troppo in fretta. Splendida la scelta di marcare la loro tendenza a ripetere gesti e canzoncine che passano attraverso le danze tamarre della madre, i litigi che ascoltano e il suono dei pub. Esemplare la scena che vede una delle bimbe, affamata, intonare una canzoncina in cui elenca i nomi di vari fast-food, lo sguardo sull’asfalto pieno di confezioni vuote, che se ci vedesse una sola patatina dentro non esiterebbe a mangiarla.
Insomma, la nostra Lady Oscar raggiunge Hollywood, l’Olimpo delle grandi produzioni, e le proposte non tardano ad arrivare: Red Road, l’acclamato Fish Tank, Cime Tempestose e un nuovo film in lavorazione. Nel frattempo Andrea ha ricevuto pure l’onore di partecipare come giurata a Cannes e Venezia. Un trionfo.
Bel lavoro Lady Oscar! Per quanto ci riguarda, possiamo solo ringraziarti per aver arricchito (partendo dal Kenterbury) l’universo dei cortometraggi e rendendo un pò più tangibile “la sostanza di cui sono fatti i sogni” di molte persone.
Per chiudere, un assaggio dei suoi lungometraggi…

Fish tank

Red Road
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Fish tank
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Red Road